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giovedì 23 novembre 2017

Giustizia lumaca, le cifre del disastro italiano e la mia personale esperienza: da 8 anni in causa per una controversia di lavoro, me ne aspettano almeno altri 5

Se è lumaca e arriva dopo 8-10 anni e anche più, che giustizia è? Se poi i tempi infiniti delle cause riguardano il lavoro, con un licenziamento o una controversia contrattuale che modificano da subito la vita dell'interessato e richiederebbero perciò sentenze tempestive, che senso ha?

Per fortuna che con l'abolizione dell'articolo 18 e la riforma Fornero le controversie lavorative dovevano sfociare in "processi brevi". Alla fine del 2014, secondo l'Istat, erano ben 4 milioni e 200mila i processi civili di primo grado pendenti in Italia, di cui 470mila per cause di lavoro. In secondo e terzo grado, tra Appello e Cassazione, giacevano invece 520mila cause, di cui 126mila per controversie lavorative. E la durata media per arrivare a una sentenza definitiva al terzo grado di giudizio era di circa 8 anni. Secondo il Ministero della Giustizia la situazione è migliorata. A fine 2016 le cause civili di primo grado erano scese a 3 milioni e 800mila, con una durata media di 1.150 giorni, un po' più di tre anni. Ma siamo sempre, largamente, il fanalino di coda d'Europa. In Italia ogni anno rimangono pendenti 45 processi ogni mille abitanti, contro i 24 della Francia, i 18 della Spagna e i 9 della Germania. E i tempi medi italiani per le sentenze di primo grado sono, mediamente, il doppio rispetto alla media europea. Nell'Unione europea peggio di noi fa solo Cipro.

Per farvi capire meglio come vanno le cose, vi racconto la mia esperienza personale in materia. Era il 2009. Da dieci lavoravo come capo ufficio stampa della Provincia di Bologna dopo quasi vent'anni da giornalista professionista nei quotidiani. Qualifica di capo redattore, stipendio commisurato alla carica, incarico prima part-time poi a tempo pieno, ma contratti cococo, sempre rinnovati senza un solo giorno di interruzione. L'allora presidente della Provincia e il direttore generale, dopo avermi assicurato la loro volontà di rinnovare e consolidare la collaborazione per altri cinque anni con contratto giornalistico, all'ultimo decisero di non rinnovarmi l'incarico. C'erano, in quel periodo, altre situazioni di precariato legalizzato alla Provincia di Bologna che, non potendo assumere per il blocco del turnover, sopperiva alle carenze di personale attivando consulenze, contratti a tempo e a progetto. Una ispezione dell'Istituto di previdenza dei giornalisti (Inpgi) all'ufficio stampa appurò che il mio contratto cococo mascherava, in realtà, un rapporto di lavoro di natura subordinata. L’Inpgi multò la Provincia di 50mila euro per la violazione contrattuale – violazione piuttosto clamorosa dal momento che le Province avevano la delega alle politiche del lavoro - e le impose di versare 80mila euro di contributi previdenziali arretrati di lavoro dipendente.

L'Ente presentò ricorso per via amministrativa e il ricorso venne respinto in entrambi i gradi di giudizio previsti, in primo grado a Bologna e in appello a Roma. Invece di sanare la situazione, il datore di lavoro pubblico decise di promuovere una causa civile contro l'Inpgi, con tanto di richiesta di risarcimento danni. Il 5 dicembre 2013 - quando erano già passati quattro anni dal verbale degli ispettori Inpgi - il giudice del lavoro del Tribunale di Roma respinse in toto il ricorso e condannò la Provincia al pagamento in favore dell'Inpgi dell'importo di 148.500 euro e al pagamento per intero delle spese processuali. Nelle motivazioni, il giudice scrisse che l'istruttoria aveva dimostrato “la natura subordinata del rapporto di lavoro, esattamente come rilevato nel verbale di accertamento impugnato". E concludeva: "Ne consegue l'assoluta infondatezza del ricorso e della domanda di risarcimento danni".

Storia chiusa? Macché. La Provincia di Bologna fece ricorso in appello contro la sentenza. L’udienza venne fissata al 2 dicembre 2015, sei anni dopo l'ispezione. Poco prima di quella data, l'appello venne rinviato di un anno con l'incredibile motivazione che bisognava dare il tempo alla Città Metropolitana, che nel frattempo aveva sostituito la Provincia, di potersi costituire adeguatamente in giudizio. A fine 2016 arrivò, d'ufficio, un altro rinvio di un altro anno, perché il relatore preposto nel frattempo era andato in pensione. Il 22 novembre scorso, alla vigilia dell'appello, è arrivato il terzo rinvio d'ufficio, questa volta di "soli" cinque mesi, per permettere un'altra sostituzione del relatore. All'11 aprile 2018, nuova data dell'appello, saranno passati otto anni e mezzo dal verbale dell'Inpgi, e non è affatto detto che la causa non slitti ulteriormente e si concluda alla prima udienza. Senza contare che c'è sempre la possibilità del ricorso in Cassazione, con tempi che, a Roma, viaggiano sui tre-quattro anni. Probabile, quindi, che si arrivi al 2021-2022, tredici anni dopo la messa in mora della Provincia.

Nel frattempo io, a fine 2009 e a 53 anni, avevo perso il lavoro, la crisi aveva chiuso tutte le porte per trovarne uno nuovo e stabile, ero stato costretto per sette anni a campare di contratti a termine e collaborazioni giornalistiche passando da una condizione "privilegiata" alla precarietà assoluta: dalle stelle alle stalle, come si dice, senza uno stipendio certo, con la famiglia da mantenere, il mutuo da pagare, una quotidianità e uno stile di vita da rimodulare completamente. Questo fino al raggiungimento della pensione, nel 2016, con un assegno pesantemente decurtato dai mancati contributi di lavoro dipendente della Provincia e dalla norma capestro delle ricongiunzioni onerose che mi ha costretto a contrarre un mutuo di 12 anni con l'Inpgi per poter andare in quiescenza. Viva la giustizia. Viva l'Italia.

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